I Principali Argomenti
La leggenda della Ninfa del Lago di Carezza
Il Trentino Alto Adige è una terra magica, che offre scenari pittoreschi e suggestivi: una regione che entra nell’anima e riesce sempre a rapire il cuore di ogni visitatore. Le bellezze paesaggistiche si fondono con una forte tradizione popolare capace di trasportare chiunque in una realtà ben diversa da quella in cui siamo normalmente abituati a vivere.
Il Trentino è uno scrigno che contiene preziose leggende e segreti: sogni, fantasia e realtà vivono in una fusione magica. Tra le tantissime leggende quella della Ninfa del lago di Carezza rientra tra le più popolari. Si narra che molti anni fa, nel Lago di Carezza viveva una ninfa bellissima che con il suo canto melodioso deliziava tutti i viandanti che si accingevano a salire al passo di Costalunga.
Un giorno passò di lì lo stregone di Masarè che udendo la dolce voce della ninfa se ne innamorò perdutamente. Lo stregone utilizzò tutti i suoi poteri per provare a conquistare la ninfa, ma senza ottenere il risultato sperato. Non si arrese e chiese aiuto alla strega di Lagwerda, la quale gli consigliò di travestirsi da venditore di gioielli, di stendere un arcobaleno dal Cantinaccio al Latemar e di recarsi al lago per attirare la ninfa e portarla via con sé.
Così fece: stese un meraviglioso arcobaleno tra le due montagne e si recò al lago, ma dimenticò di travestirsi. La ninfa rimase stupita di fronte all’arcobaleno colorato di gemme preziose, ma non appena vide lo stregone si immerse nuovamente nelle acque del lago. Mai più nessuno la rivide. Lo stregone distrutto dalle pene d’amore strappò l’arcobaleno dal cielo, lo distrusse in mille pezzi e lo gettò nel lago. Questa è la ragione perché ancora oggi il lago di Carezza risplende tutti gli stupendi colori dell’arcobaleno, dall’azzurro al verde, dal rosso all’indaco, dal giallo all’oro. Gli occhi vengono letteralmente accecati dai brillanti colori, che hanno fatto del Lago di Carezza uno dei luoghi più belli al mondo. Uno specchio d’acqua di infinita ed inarrivabile bellezza.
La leggenda dell’uomo selvaggio di Monticolo
Nel bosco di Monticolo c’era una piccola casa, la quale proprio non piaceva agli abitanti delle zone limitrofe, tanto da consigliare anche a chi era di passaggio di non avvicinarsi. Ancora oggi molte persone del posto hanno paura ad attraversare il bosco di notte, proprio per la presenza di quella casa. La leggenda racconta che proprio in quella casetta abitava un selvaggio. Una persona di grande statura, forte e cattiva, conosciuta da tutti come “l’uomo selvaggio di Monticolo”.
Molti anni fa, una donna anziana, di sera, si recò nel bosco per raccogliere rami secchi. La donna non fece rientro a casa, ma nessuno ebbe il coraggio di andare nel bosco a cercarla. Quando la mattina del giorno dopo la gente si mise a cercare l’anziana, ritrovarono soltanto degli avanzi vicino alla misteriosa casetta sul colle “Windmannsbühel”: l’uomo selvaggio la divorò, si pensava!
Un giorno, l’uomo selvaggio si recò a Colterenzio per acquistare da un contadino alcuni buoi con i quali voleva trasportare delle pietre. Il contadino non voleva vendere gli animali all’uomo selvaggio, perché si diceva che li maltrattasse. Ma, per paura dell’uomo, dall’aspetto poco cordiale e dalla immensa corporatura, non si rifiutò alla richiesta. Il giorno dopo trovò i buoi nuovamente nella loro stalla a casa: ingrassati e molto più forti di prima.
Non credeva ai suoi occhi, anche perché tutti dicevano che il selvaggio era solito trattare malissimo qualsiasi animale. Dopo diversi giorni dallo strano accaduto alcune persone si recarono nel bosco per raccogliere fogliame. Passarono anche nei pressi della casetta dell’uomo selvaggio, del quale già da tempo non si avevano più notizie. La curiosità fu davvero tanta ed entrarono nella casa per dare un’occhiata. La porta era aperta e, una volta all’interno, videro una grandissima cava. Scesero e non appena dentro la grande fossa a tutti vennero le vertigini. All’improvviso i lati della fossa si trasformarono in oro e tutto brillava attorno a loro.
La gente, spaventata a morte, cercò di uscire dalla cava il più velocemente possibile. Però, una volta fuori nuovamente erano assaliti dalla curiosità di rivedere tutto quell’oro. Rientrarono, ma all’improvviso tutto si trasformò di nuovo come era prima: dinanzi i loro occhi c’era solo una fossa vuota! Cari lettori, chi fosse questo selvaggio uomo non lo sapremo mai. Così come non sapremo mai se era buono o cattivo. Se però vi capita di passare davanti alla sua casa seguite la tradizione e fate il segno della croce per proteggervi dalla presenza di spiriti maligni.
I monti pallidi
Le Dolomiti sono conosciute anche come Monti Pallidi a seguito di un prodigioso incantesimo avvenuto al tempo del Regno delle Dolomiti. Un regno ricoperto di prati fioriti, boschi lussureggianti e laghi incantati. Ovunque si poteva respirare aria di felicità e armonia meno che nel castello reale. Secondo la leggenda, il figlio del re aveva sposato la principessa della luna, ma un triste destino condannava i due giovani amanti a vivere eternamente separati.
Perché? L’uno non poteva sopportare l’intensa luce della luna che l’avrebbe reso cieco; l’altra sfuggiva la vista delle cupe montagne e dei fitti boschi che le causavano una malinconia talmente profonda da farla ammalare gravemente.
Sembrava che la vecchia armonia, che da sempre aveva contraddistinto quel meraviglioso regno, era ormai un lontano ricordo. Il principe sconsolato vagava per i boschi di quelle alte montagne. Proprio in quei boschi abitavano anche strane creature capaci di straordinarie magie: erano in grado di cambiare il corso degli eventi. Così un giorno, nel suo disperato vagare, il principe si imbatté nel re dei Salvani, un piccolo e simpatico gnomo in cerca di una terra per il suo popolo.
Dopo aver ascoltato la triste storia del giovane, il re dei Salvani gli propose, in cambio del permesso di abitare con la propria gente questi boschi, di rendere lucenti le montagne del suo regno. Così fu: dopo una lunga notte di lavoro, gli gnomi riuscirono a catturare tutta la bianca luce della luna e con essa ricoprirono ogni centimetro delle montagne. La principessa poté così tornare sulla terra per vivere felicemente assieme al suo sposo e le Dolomiti presero il nome di Monti Pallidi.
L’eremita dello Sciliar
La leggenda racconta che verso la fine del XV secolo bussò alla porta della Rocca di Castelvecchio un padre pellegrino, il quale chiese di conferire urgentemente con il castellano.
Dopo diverse ore i due uscirono dalla rocca e si diressero verso una caverna ai piedi dello Sciliar. Un luogo impervio conosciuto con il nome di Grotta di Chiusa. Proprio lì l’uomo costruì un eremo e cominciò a condurre la vita dell’eremita, in perfetta armonia con il popolo dei nani, che da millenni abitava quei luoghi e con tutti gli animali presenti.
Così fu per tantissimi anni. Spesso si recava in valle per curare gli ammalati con erbe e intrugli magici. Vivendo lassù aveva appreso tutti i segreti della natura. La fama e la saggezza dell’eremita si diffuse rapidamente in tutta l’Europa e un dì giunse alla sua dimora una lucente schiera di cavalieri con alla testa l’imperatore Max in persona. Max lo pregò di tornare alle gioie quotidiane presso la sua corte perché erano tempi difficili ed aveva bisogno dei suoi consigli, ma lui si rifiutò e non ci fu modo di convincerlo ad abbandonare quel luogo solitario.
L’imperatore dovette rassegnarsi alle decisioni dell’eremita e fece ritorno, pieno di tristezza, alla sua reggia nella lontana città di Wels. Passarono molti anni e un giorno i nani fecero visita al re Max, portando con sé una triste notizia: il vecchio saggio era morto. Il dolore fu così forte per il re, il quale poco dopo morì. L’eremo rimase per molto tempo abbandonato e solo il vento della sera suonava le campanelle della cappella portando il suono ai paesi vicini. Un esercito di guerrieri selvaggi saccheggiò la zona e distrusse anche la grotta con il tempietto.
Appena fu tornata la pace i nani si recarono alla caverna, presero le campanelle d’argento e le portarono sulla cima dello Sciliar dove, ancora oggi, con il loro suono annunciano grandi avvenimenti o prossime disgrazie.
La leggenda di Conturina
Nella Valle di Contrin, ai piedi della Marmolada, vive ancora il ricordo di Conturina, una bellissima fanciulla vittima della propria bellezza e dell’odio profondo della sua matrigna. La matrigna di Conturina era una nobile e ricca signora, padrona di un castello e madre di due ragazze che non si facevano notare certo per il loro aspetto.
Molti principi e giovani cavalieri venivano in visita al castello; tutti ammiravano Conturina e nessuno si interessava delle altre due ragazze. Alla matrigna tutto questo proprio non piaceva, così ordinò alla bella ragazza di non pronunciare parola alcuna in presenza degli ospiti. La povera ragazza, maltrattata continuamente, fu costretta ancora una volta ad obbedire senza controbattere. A tutti i principi e qualsiasi altro ragazzo che si recava al castello la matrigna diceva che la ragazza era stupida e muta. Ma i giovani visitatori continuavano ad ammirare Conturina perché la sua bellezza era davvero infinita e poco importava tutto il resto. Allora la matrigna ordinò che, quando vi fossero ospiti in casa, Conturina restasse sempre perfettamente immobile. A tutti cominciò a dire che la figliastra era muta e paralitica.
Niente da fare: i giovani in visita al castello rimanevano comunque incantati dalla celestiale bellezza della ragazza, mentre delle altre due figlie proprio non si interessavano. La matrigna, furente, mandò a chiamare una strega, la quale con un incantesimo trasformò Conturina in una statua. Il risultato non cambiò, perché tutti coloro che si trovavano al cospetto della statua restavano incantati dalla perfezione della stessa.
La matrigna, ancor più furiosa, ordinò che la fanciulla impietrita venisse portata sopra l’altissima rupe che domina il Passo di Ombretta e che venisse infitta nella roccia e abbandonata lassù.
Nessuno sapeva dove la povera Conturina, ormai statua di raffinata eleganza, si trovasse, fino a quando, alcuni pastori udirono nella Val d’Ombretta una voce di donna che cantava una dolce melodia.
Una notte un giovane soldato, che era di sentinella sul passo, nel silenzio profondo riuscì a comprendere anche le parole del canto che descrivevano la triste storia della giovane e bellissima Conturina. Il soldato le gridò che allo spuntar del giorno si sarebbe arrampicato su quella rupe per liberarla. Conturina gli rispose che era troppo tardi. Nei primi sette anni sarebbe ancora stato possibile liberarla, ma alla fine del settimo anno l’incantesimo si era fatto insolubile e nessuna forza umana sarebbe riuscita a staccarla e liberarla dalla roccia. La povera ragazza di pietra era destinata a vivere per sempre lì.
Si narra che chi passa per quel deserto di rocce, la Valle Ombretta, specialmente di sera, ode ancora il dolce canto della povera Conturina.
La leggenda di San Romedio e l’orso
Giunti al Santuario di San Romedio, nell’Alta Anaunia, è possibile ammirare un orso in una gabbia costruita appositamente dai monaci.
Bisogna innanzitutto sapere che San Romedio era un alpigiano-eremita che un giorno, desideroso di ritirarsi in preghiera e penitenza, scelse proprio quel colle boscosissimo e circondato da una selvaggia gola, che si trova poco lontano dalla strada e che oggi sale al Passo della Méndola.
Ben presto però raggiunsero Romedio due giovani. Erano anch’essi desiderosi di far penitenza e il Santo gli tenne con sé, ma a un patto: i due dovevano ottenere il permesso del Vescovo San Virgilio. I giovani accettarono felici, e rimontati a cavallo presero la via per Trento diretti dal Santo Vescovo. Dopo pochi metri, però, balzò dalla fitta selva un orso. Era un orso grande, grosso e molto affamato.
Appena i due giovani impauriti saltarono giù dal cavallo, l’orso divorò il cavallo. L’urlo dei due giovani disperati arrivò anche al Santo Eremita, che però poté solo assistere alla morte del cavallo. Uno dei due giovani, prima di abbandonare il cavallo, riuscì a toglierli briglia e sella. San Romedio, alla vista di quegli arnesi, ebbe un’idea. “Ascolta un po’ ”- disse ai giovani -“voi sapete che cosa dovete fare? Ridiscendete il prato, andate da quell’orso, mettetegli briglie e sella così come se fosse lui ora il vostro cavallo. Montategli addosso e fatevi portare a Trento. Su, in fretta!”.
“La sella all’orso?” – risposero i ragazzi increduli. “Sicuro, la sella all’orso. Andrà tutto bene”, rispose San Romedio.
I due allora andarono e il miracolo avvenne. L’orso, visti i due avanzare, non si fece minaccioso. Al contrario, li guardò con bonarietà. Si fece mettere tutto, stando buono e quando i due gli salirono in groppa si avviò verso Trento. Giunti a Trento, i due si recarono al Palazzo Vescovile e ricevettero il permesso di restare in penitenza con l’eremita.
Adesso è chiaro perché San Romedio è considerato il protettore degli orsi?
Consiglio approfondita rilettura e correzione di tutti gli orrori grammaticali…
f***e le storie e sopratutto quella della ragazza e dell’orso