Il Molise ha un territorio impervio e nasconde in se varie leggende: eccone 5

La leggenda del Re Bove

Al centro di questa antica leggenda c’è la chiesa di Santa Maria della Strada, uno degli edifici religiosi più antichi di tutta la regione. La leggenda narra del Re Bove, il quale di innamorò follemente di sua sorella. Ovviamente, i problemi legati a questo amore erano tanti, ecco perché lo stesso re si rivolse al Papa per ottenere il permesso per sposarla. La risposta del papa fu positiva, ma strinse un patto il Sommo Pontefice: il matrimonio poteva avvenire solo se il re avesse edificato in una sola notte 100 chiese. Ogni edificio doveva presentare forma e dimensioni diverse l’uno dall’altro.

Una prova impossibile, che non spense il forte desiderio di re Bove, che pur di riuscire a sposare la sorella, per la quale provava uno smisurato amore, che quasi lo aveva portato alla pazzia, accettò. Ma, da solo non poteva mai riuscire a terminare le cento chiese in così poche ore, nemmeno con l’aiuto di tutti i sudditi. Necessitava dell’aiuto di una forza lontana da quella normalmente conosciuta dal genere umano. Re Bove decise allora di chiedere aiuto al demonio, l’unico che poteva riuscire nella costruzione di tutti gli edifici. Il diavolo, però, non è solito fare lavori per gentilezza: in cambio di tanto lavoro chiese l’anima del re.

Così fu. Durante la notte i due lavorarono incessantemente: il diavolo faceva staccare e ruzzolare giù dalla montagna grandi macigni di pietra, mentre il re li sovrapponeva per dar forma alle chiese. L’alba illuminò l’operato: 99 chiese erano state costruite, ma prima della centesima, re Bove provò un profondo rimorso e piangendo, pregò Dio, chiedendo perdono. Nella sua infinita misericordia Dio lo perdonò, mentre il diavolo irritato per la sconfitta, scaglio un masso contro la chiesa in via di ultimazione, quella di Santa Maria della Strada, colpendo il campanile. Il masso si fermò a poca distanza dall’edificio religioso e oggi è ancora lì ed è stato battezzato con il nome di masso del diavolo.

Re Bove quando la morte sopraggiunse, venne sepolto proprio in questo edificio. Durante i secoli, secondo la leggenda, solo 7 chiese sono rimaste intatte e sono quelle di: Santa Maria di Monteverde, Maria Santissima Assunta di Ferrazzano, San Leonardo di Campobasso, Santa Maria di Cercemaggiore, Santa Maria della Strada, la cattedrale di Volturara Appula, mentre resta oscuro il nome della settima.

Il cantone della fata di Castropignano

Il simbolo di questa leggenda è il Cantone della Fata, una grande roccia posizionata sul lato nord del suggestivo Castello d’Evoli. Proprio per le sue dimensioni, la roccia è ben visibile in mezzo alla fitta vegetazione. Per raggiungere tale luogo è necessario percorrere la strada che da Campobasso conduce vero Castropignano. Con precisione la roccia si trova in una posizione leggermente più bassa rispetto a quella occupata dal caratteristico castello. Un edificio, quest’ultimo, che ha origini normanne, poi riammodernato dalla famiglia d’Evoli, che l’abitò per tantissimi anni. Oggi la struttura è stata riportata al suo originario splendore ed è meta di numerosi turisti. Torniamo a noi e alla straordinaria leggenda che ha reso famoso questo castello.

Questa antica leggenda molisana narra che in epoca feudale vivesse a Castropignano una ragazza talmente bella da essere chiamata la fata, promessa sposa di un fortunato giovane del luogo. All’epoca, però, vigeva la legge dello “ius primae noctis”: il diritto da parte del signore feudale, in questo caso di un duca, di poter trascorrere la prima notte di nozze con la moglie di un suo servo.

Una legge tremenda, alla quale la giovane donna, la fata, proprio non voleva sottomettersi. Si diede perciò alla fuga, la quale terminò con un lancio nel vuoto, proprio dalla roccia prima citata, il Cantone della Fata. La giovane si sottrasse al disonore per amore e la tradizione popolare non solo vede la roccia come il simbolo d’amore, ma la identifica come il punto esatto in cui si aggira il fantasma della bellissima donna.

Gli spiriti di Palazzo Nuonno

Nella suggestiva Agnone, bellissima realtà urbana dell’Alto Molise, c’è un edificio molto famoso: Palazzo Nuonno. Il palazzo, che si dice essere la dimora del diavolo, fu costruito da Garibaldi tra il 1100 e il 1200 ed era originariamente conosciuto come Palazzo dei Conti Minutolo, poi passato alla storia come Palazzo Nuonno, dimora di fantasmi e spiriti maligni.

Fino al 1796 l’edificio è stato abitato dalla famiglia Colucci, predecessori della famiglia dei Nuonno, originaria di Sant’Angelo del Pesco. I Colucci, secondo antiche testimonianze, decisero di abbandonare il palazzo, proprio perché infestato dai fantasmi, ma niente dissero ai Nuonno, che ignari di tutto presero possesso dello stesso. Risultato? Anche quest’altra famiglia fu costretta a scappare, abbandonando il palazzo, lasciato al proprio destino.

Cosa nasconde questo palazzo? Il Comune e l’Ente Provinciale per il turismo hanno fatto incidere una targa con su scritto: “è detto anche palazzo dei fantasmi, per i fatti e i fenomeni strani che si narrano”. Leggende e fantasie popolari o c’è qualcosa di molto più grande e reale nelle stanze di questo misterioso palazzo?

Si dice che in tempi lontani gli ambienti del palazzo avessero ospitato orge e riti satanici con dodici coppie fisse e alla mezzanotte comparisse la tredicesima coppia, quella del diavolo. Una notte, il pavimento crollò sotto i piedi dei presenti e tutti morirono. Sono proprio loro a ricomparire sotto forma di spiriti, in quella stanza ove è stato inciso anche un teschio sulla parete.

Ma, i misteri e leggende legate al Palazzo Nuonno non finiscono qui, poiché dallo stesso palazzo era facilissimo accedere ad un lungo corridoio che metteva in comunicazione il Convento dei Frati, con il Convento delle Suore di Santa Chiara. Proprio in quest’ultimo convento furono rinvenuti i corpi di tantissimi feti, forse frutto di rapporti clandestini tra amanti. Palazzo Nuonno si trova proprio nel mezzo di questi due edifici religiosi. Accadono ancora cose strane in questi luoghi: le ultime testimonianze risalgono a non molto tempo fa, quando un utente ha postato su Facebook una foto che ritrae una scura sagoma dietro i falsi vetri di una finestra. Falsi vetri? Proprio così, perché in realtà la finestra è murata, ma in tanti hanno visto quella sagoma, a volte più di una, che sembra spiare all’esterno dai vetri. La gente del luogo afferma di aver sentito delle strane musiche dopo la mezzanotte, passi di danza e di cavalli, e strane urla. Questa leggenda viene ancora raccontata ad ogni singolo visitatore che qui si reca. Il mistero di Palazzo Nuonno e dei due conventi è ancora vivo, ora più di prima.

La leggenda di Paolaccio

Cominciamo con il presentare il protagonista di questa leggenda, Paolaccio, un vagabondo senza famiglia, che si era guadagnato questo status sociale. Infatti, non possedeva niente perché non aveva mai lavorato in vita sua ed inoltre mal si comportava con chiunque incontrava. Insomma, un uomo davvero malvagio. Chiunque lo incrociava sul suo cammino cambiava strada, perché la cattiveria brillava nei suoi occhi e nessuno voleva avere a che fare con lui.

Una notte, mentre dormiva in un campo vicino Termoli, venne svegliato da una voce che ripeteva il suo nome. Una strana figura era lì che lo osservava.

“Chi diavolo sei?” chiese.

“Lo hai detto, sono proprio il diavolo. Sono venuto a proporti un patto”.

Paolaccio non si impressionò.

“Di che si tratta?” chiese di malanimo.

“Vuoi diventare ricco?” chiese a sua volta il diavolo.

“Se lo voglio? Non chiedo di meglio. E che dovrei fare in cambio?”

“Non devi fare nulla. Devi darmi solo la tua anima”

“Per questo ci sto” disse Paolaccio “Che me ne faccio dell’anima? Ma dimmi: come avrò le ricchezze?”

“Prima firma il patto e poi te lo dirò” rispose Belzebù.

Paolaccio così fece, firmando il diabolico contratto con una bella “x”, dato che non sapeva né leggere e né scrivere.

“Bene” gongolò il demonio, “Ed ora stai a sentire. La vedi quella rete? Ti servirà per pescare”

“Bella roba!” esclamò Paolaccio “Come se i pesci dessero la ricchezza!”

I pesci che ti farò pescare io, sì” proseguì il diavolo “Sono pesci bianchi e rosei che hanno una specialità: quella di inghiottire i tesori accumulati nelle navi sommerse: gemme stupende, monete d’oro e altre rarità. Sono pesci che stanno al mio servizio, pronti a farsi pescare dai miei protetti. Tu ora lo sei e quindi puoi pescarne quanti ne vuoi. Dovrai soltanto dire, immergendo la rete: Fortuna, vieni su, te l’ordino nel nome
del grande Belzebù”.

La curiosità era tanta, così Paolaccio non aspettò un altro minuto e dopo aver lanciato la rete e pronunciato la frase, la ritirò. Era piena dei pesci descritti dal diavolo. Tutti erano pieni di smeraldi, rubini, oro e ogni forma di ricchezza.

 “Questa sì che è una ricchezza!” esclamò soddisfatto Paolaccio.

Da quella notte il tenore di vita dello scontroso Paolaccio cambiò: comprò un principesco palazzo, cominciò ad organizzare sontuose feste, circondandosi di ogni lusso. Cambiò profondamente, diventando generoso con tutti, pensando di essere ora diventato un grande uomo. Tutto era perfetto.

Un giorno, proprio durante una festa nel suo palazzo principesco si presentò al suo cospetto uno strano individuo, vestito di stracci. Paolaccio lo riconobbe e si avvicinò esclamando: “Che sei venuto a fare, qui?”

“Lo sai” rispose Belzebù, “Sono venuto per il nostro contratto che, per l’appunto, scade oggi…”

“Vattene” supplicò Paolaccio impaurito, “Vattene via, lasciami!”

“Eh, caro mio! Non posso. I patti sono patti. Io ti ho dato la ricchezza, tu te la sei goduta, ed ora è tempo che tu mi dia la tua anima”.

Dopo queste parole ci fu un grande boato e Paolaccio cadde a terra senza vita.

Chissà se i pesci pieni di ricchezze esistono davvero. Secondo alcuni pescatori, si. Però, dicono che bisogna guardarli da lontano, perché bestie al servizio del demonio, che non portano a nulla di buono.

La leggenda del Mostro del mare

Un’altra affascinante leggenda del Molise, che ha come protagonista uno spietato mostro.

Questo mostro del mare era Landoro, una specie di enorme drago con due occhi grandi come carri che spadroneggiava sulla superficie del mare sibilando, stridendo ed emettendo vampe di fuoco. I pescatori lo sentivano da lontano. Ma erano ancora i tempi in cui non esistevano le barche e quindi nessuno aveva mai affrontato il mostro per liberare le acque.

Da Landoro, orribile, passiamo a una fanciulla bionda, con gli occhi sognanti che passava gran parte del suo tempo sul litorale marino, guardando con nostalgia verso l’orizzonte.

Era Lada e sognava di volare come i gabbiani liberi sulle onde. Un giorno questo vivo desiderio le fece spuntare sulle spalle due candide ali.

La gioia di Lada fu grande e iniziò subito a volare. Che meraviglia! Ora le onde correvano sotto di lei e davanti aveva il mare immenso.

Volava così da qualche tempo cantando, finché guardando in basso, Lada vide il mostro dagli occhi giganteschi. La fanciulla alata ebbe un brivido di terrore, si sentì perduta, come attratta da quegli occhi. Per fortuna quel giorno il mostro non cercava vittime.

Guardò Lada e poi all’improvviso si inabissò. Con un sospiro di sollievo la fanciulla volò verso la costa, discese sul lido e a poco a poco l’orrore del mostro se ne andò.

Ma, ahimè, quelle ali erano ormai inutili. Ora Lada non avrebbe più osato sorvolare il mare e spingersi così lontano.

La fanciulla piangeva disperata, finché sentì una voce vicina: “che cos’hai? Perché piangi?”.

Lada si voltò e vide un bellissimo giovane che la guardava con dolcezza. La fanciulla narrò allo sconosciuto la sua tremenda avventura.

Il giovane, dopo un istante di meditazione, disse: “queste ali, Lada, sono un dono degli dei. Esse devono rallegrarti e non affliggerti. Io ucciderò Landoro e ti aprirò il cielo”.

“Chi sei?”, chiese Lada colpita da tanto coraggio.

“Sono Geri”, rispose il giovane, “il figlio della Quercia e del Vento”.

Vide il giovane che, con un pugnale, andava verso il mostro e lei si addormentò.

Quando si svegliò era l’alba e il mare era rosso, come la sabbia, le sue mani e le sue ali.

Apparve Geri e disse che aveva ucciso il mostro. Le narrò come aveva fatto e i due erano felici, persino le onde sembravano esserlo.

Il mostro però non morì. Infatti, dal mare giunsero strani segni L’aria era irrespirabile, i pesci morivano e c’era gente smarrita.

Era la vendetta del mostro che uccise tutti. Uccise anche i due giovani.

Passarono tantissimi anni e la vita tornò a sbocciare da un piccolo fiore incantevole sulle sponde del fiume.

I suoi petali, pian piano, divennero esseri viventi. La terra si ripopolò di persone, animali, gioia, bontà, speranza, amore.

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