La nascita del Carso

Il Friuli Venezia Giulia, regione situata nel Nord Italia, nasconde varie leggende, tra cui quella del Carso. Il Carso è una terra arsa di sassi, rocce, spine, priva d’acqua, vegetazione, persone. Terra di sofferenza per migliaia di nostri soldati che vi combatterono durante la Guerra Mondiale. L’arsura del Carso ha dato il nome a questa popolare leggenda.

Si racconta che un giorno il Signore camminava con San Pietro faticosamente per attraversare la paurosa pietraia. Erano entrambi poveri e avevano un asinello caricato di semplici provviste: pane, acqua, formaggio e un po’ di pesce secco. Fin dal mattino avanzavano per la balze e le rupi, cercando qualche creatura in pena da consolare. Erano stanchi e stufi, così fu tempo di mangiare. San Pietro mise il suo mantello su un sasso per dare al Signore una specie di sedile. Poi cercò le provviste attaccate all’asinello, ma il formaggio non c’era. “Signore”, esclamò, “ce l’hanno rubato”. E il Signore ebbe un lampo di sdegno: perché rubare a lui che era sempre pronto a donare?. Allora Gesù disse: “Pietro, d’ora in poi chiunque abiterà nel Carso avrà scarsezza d’acqua perché così mai più deve estinguersi la sete di colui che ci rubò il nostro umile cibo”. Da allora, si racconta, il Carso fu aspro, sassoso, senza ombra e senza sorgenti.

La leggenda delle campane di Farra

Un giorno, nel mese di Giugno, il parroco di Farra stava passeggiando quando incontrò un forestiero. Gli mostrò contento i campi di frumento e di segala, con spighe gonfie e mature, i campi di granoturco che promettevano un buon raccolto. Il forestiero gli rispose ridendo: “è tutto bello, è vero; ma io ho tanti e tanti di quei cavalli che potrei far calpestare questa campagna in pochi minuti”.

Il parroco capì che era il Diavolo e rispose: “ed io ho tante briglie e tanti morsi da tenere a freno tutti i vostri cavalli”. Il forestiero lo guardò ridendo e se ne andò frettolosamente. Il parroco, appena giunto in canonica, chiamò il sacrestano e gli ordinò che, appena vista una nuvoletta, corresse subito a suonare le campane per allontanare il cattivo tempo. Il giorno seguente, osservando le montagne del Carso, il sacrestano vide una nuvoletta.

Allora corse a suonare le campane mentre il parroco in Chiesa cominciava a recitare le preghiere. Nel frattempo le nubi si ingrossavano, salivano, diventavano sempre più nere e, portate dal vento, galoppavano verso il Paese. Cominciò a cadere qualche chicco gelato, poi arrivò la vera e propria grandine. Cessato però il temporale si vide che la grandine, alta quasi un metro, era andata a cadere tutta in un mucchio nel cortile del parroco. Così le campane e le preghiere furono i freni trovati dal parroco per dominare i cavalli del diavolo, che erano le nuvole.

Leggenda del Castello di Gemona

Un edificio suggestivo, costruito sopra uno sperone roccioso a guardia dell’antica strada che collegava l’Adriatico alle Regioni Danubiane. Il bellissimo Castello di Gemona ha subito grossi danni a causa del terremoto del 1976, ma grazie ad una mirata opera di ricostruzione, è tornato al suo originario splendore. La posizione è davvero suggestiva e permette di godere di un panorama a dir poco stupendo: la pianura friulana si distende al suo cospetto, protetta dalla sua maestosità.

Sul castello si tramanda una misteriosa leggenda, che lo ha reso ancor più famoso. Molto tempo fa, un ambulante giunse a Gemona in una notte d’estate e non avendo soldi si fermò a dormire sotto il Palazzo del Comune. A mezzanotte, però, venne svegliato da strani rumori. Una strana voce gli sussurrò: “se hai coraggio domani sera a quest’ora fatti trovare nuovamente qua”.

La notte seguente l’ambulante si recò nuovamente lì e udì ancora la misteriosa voce: “vieni con me alla torre del Castello: li dovrai gettare un sasso e poco dopo vedrai una tremenda bestia a cavallo di una cassa con una chiave in bocca; non dovrai spaventarti, il tuo compito sarà quello di strappare la chiave al mostro prima che scocchi l’una di notte”.

L’ambulante, leggermente timoroso, non si tirò indietro e fece quanto richiesto ma proprio quando sembrava avercela fatta scoccò l’una. La missione era fallita e la bestia e la cassa scomparvero tra le fiamme. La povera anima disse così all’ambulante: “avevo la speranza di essere liberata da te; purtroppo ora dovrà nascere un nuovo albero da cui ricavare la culla per un altro uomo che possa avere maggior fortuna”.

L’anima ancora oggi non è stata liberata: chi sarà il prossimo uomo al quale chiederà di essere liberata?

Una leggenda che fa parte della tradizione popolare e che da secoli incanta grandi e piccini. Prima o poi, un uomo forte e astuto riuscirà nell’impresa: l’anima potrà manifestarsi e il mistero sarà risolto.

La leggenda dei porcellini d’oro

Siamo a Fagagna, dove la leggenda della scrofa e dei suoi porcellino d’oro è conosciuta da tutta la popolazione. Si narra che un tempo il Castello di Fagagna e quello di Villalta fossero tra loro uniti da una segreta galleria sotterranea. Nel 1250 il castello di Fagagna sarà conquistato, dopo tanti tentativi, da Ezzelino da Romano, signore della Marca Trevigiana. Tutti i castellani furono fatti prigionieri, ma prima riuscirono a nascondere gran parte delle ricchezze che erano custodite nel castello. Furono nascoste proprio nella galleria sotterranea. Tra i tanti tesori del castello, vi era anche una scrofa con sei porcellini d’oro.

Quando le truppe trevigiane si ritirarono il patriarca Bertoldo di Merania ordinò una dura rappresaglia nei confronti dei traditori. Il tesoro però non venne mai più ritrovato. Questa leggenda, molto sentita tra la popolazione locale, è oggi utilizzata per spronare i giovani al lavoro nei campi: “forza lavora che puoi trovare la galleria che nasconde la scrofa e i porcellini d’oro …”

In tanti si son messi in cerca del prezioso tesoro, ma mai nessuno ha ben trovato il punto esatto. Più di qualcuno ha ipotizzato che il tesoro si nasconda sotto il Tumulo di Foschiani, nei pressi del Castello di Villalta, mentre altri credono che si trovasse all’ingresso della galleria nei pressi della chiesetta di Foscari, dove vi è un pozzo collegato con questa famosa galleria.

Ad oggi, il tesoro non è stato ancora ritrovato!

I folletti dei boschi: gli Sbilfs

In molte leggende della Carnia i protagonisti sono proprio loro: degli strani folletti che abitano i boschi di questa caratteristica regione. Abilissimi a mimetizzarsi, vivono nel sottobosco, ma spesso dimorano anche vicino a stalle e fienili, senza però farsi vedere dall’uomo. Il loro rifugio prediletto, però, rimane la fitta vegetazione del bosco: costruiscono le loro case all’interno della cavità degli alberi.

Non abbiate paura: sono esseri di piccole dimensioni, intelligenti, inafferrabili e spesso anche burloni, ma nello stesso tempo pronti ad aiutare chi nei boschi si trova in difficoltà. Infatti gli Sbilfs sono eternamente fanciulli, amanti dei giochi, della danza e della musica. Hanno un carattere fortemente mutevole, ma mai cattivo. Agiscono, tuttavia, secondo la tipica incoscienza dei bambini. Non tutti riescono a vedere gli Sbilfs, poiché son loro a decidere a chi manifestarsi e a chi no. Solo i bambini di buon cuore riescono a vederli, sempre. Amano il rosso, tanto che in molti vestono con abiti di questo colore e sono ghiottissimi di Zûf (una preparazione di latte e farina di mais che si usava un tempo per servire la colazione). Gli Sbilfs sono davvero tantissimi e nella loro grande comunità, vengono suddivisi in particolari categorie di appartenenza, assumendo nomi diversi: c’è il Licj intento ad annodare corde e fili che trova nelle abitazioni; il Brau che ama scucire vestiti e tende; il Bagan, folletto della stalla, che se infastidito rovescerà i secchi colmi di latte e nasconderà gli attrezzi di lavoro; il Maçarot, abilissimo a fare dispetti. Quest’ultimo, anticipa la burla con un sibilo, per poi sbellicarsi dalle risate. Il Massaroul che pur indossando una calzamaglia rossa, non sopporta questa colore. A Forni di Sopra, il Maçarot è spesso accompagnato da sua moglie, Ridùsela, anch’essa intenta a combinare bricconerie. A Gemona si trova, invece, il Pamarindo sempre intento a bloccare il passaggio allargandosi a dismisura. Vi è poi il Boborosso, tra i più cattivi, assorto a provocare gli incubi notturni ai bambini.

In generale, gli Sbilfs, protagonisti di racconti fantastici, sono la rappresentazione del rispetto che avevano i nostri antenati nei confronti della Natura. Un profondo rispetto che suggeriva di non tagliare mai un albero senza motivo. Insomma, il ponte che collega l’uomo alla natura: un ponte che si mantiene sui piloni del rispetto.

La casa maledetta di Doberdò del Lago

Le case maledetta, infestate dai fantasmi o da spiriti maligni, dove avvengono cose strane, che mettono davvero i brividi, sono davvero tantissime, sparse in tutto il territorio della penisola italiana. Ma, tra le tante una in particolare può essere descritta come particolarmente inquietante. È la casa maledetta di Doberdò del Lago, un piccolo comune sull’altopiano del Carso, fra Gorizia e Monfalcone.

Una spirale di terrore che avvolge la casa dagli anni ’50. Sono tantissimi gli anziani del luogo che ancora ricordano bene i tragici eventi accaduti tra quelle maledette mura. In quella casa morirono due bambini. Due gemellini, che ha causa di una forte polmonite, erano stati ricoverati in ospedale, per poi essere dimessi. Una volta giunti a casa, morirono. Uccisi dalla casa maledetta?

Torniamo ai nostri tempi e scopriamo che lì si è consumato un tentato omicidio e un suicidio e sempre lì abitava un 17enne deceduto in un incidente stradale. Proviamo a fare un po’ di chiarezza, analizzando gli eventi nell’ordine cronologico esatto. Dopo la tragica morte dei gemellini neonati la spirale maledetta colpisce una madre, che si è tolta la vita recidendosi l’arteria femorale. La donna, che era un’infermiera, si è lasciata morire dissanguata tra le mura del proprio appartamento, dopo aver aggredito il figlio 28enne. Poi è stata la volta del suo vicino di casa, un diciassettenne morto dopo un grave incidente in moto sulla provinciale 15. Il giovane abitava proprio nel pianerottolo di fronte. È stato anche lui vittima della casa maledetta?

Forse, si tratta solo di coincidenze, ma in ogni caso, tutti coloro che in qualche modo erano entrati in contatto con quella casa, o perché vicini, o perché lì hanno abitato, sono morti. La leggenda della casa maledetta di Doberdò del Lago non è la classica leggenda che trae origine da eventi accaduti tanti secoli fa, ma il tutto è iniziato proprio pochissimi anni fa. Una storia contemporanea che con la forza si è fatta largo nella tradizione popolare del luogo. Questo perché sono state davvero troppe le disgrazie che hanno colpito questa casa di Doberdò del Lago, che qualcuno l’ha identificata come “casa degli orrori”.

La leggenda della Bora

Impossibile non menzionare la Bora parlando di questa bellissima regione, che ospita la straordinaria città di Trieste. Proprio su questo forte vento, che influisce pesantemente sul clima locale, c’è una famosa leggenda.

Vento padre dei venti, che era solito girare il mondo in compagnia dei suoi figli. Tra questi vi era Bora, la più bella. Un giorno giunsero ad un altopiano verdeggiante, che ripido scendeva verso il mare. La bella Bora cominciò a giocare con le nuvole, allontanandosi dal padre e dai suoi fratelli. Trovò una caverna e senza alcun timore, proprio come un bimbo che gioca immerso nella natura, vi entrò. Fu così che incontrò un uomo, essere che Bora non aveva mai visto prima: si trattava dell’argonauta Tergesteo. Fu amore a prima vista. I due giovani vissero felici in quella grotta sette giorni di amore e di travolgente passione.

Bora non avvisò il padre Vento, che preoccupato aveva già iniziato a cercare la prediletta figlia. Dopo alcuni giorni di ricerche la trovò e vedendola abbracciata a Tergesteo si arrabbiò a tal punto che si scagliò contro l’uomo, lo gettò con violenza contro le pareti della grotta, uccidendolo. Bora scoppiò in un singhiozzo talmente disperato che ogni sua lacrima iniziò a trasformarsi in pietra. Fu così che il prato verde dell’altopiano venne completamente ricoperto da un manto di pietre: ecco spiegata anche la formazione del Carso, da un punto da un punto di vista leggendario.

Il padre Vento ordinò a Bora di ripartire, ma lei distrutta dal dolore non ne volle sapere. Così Odino ordinò a Vento di ripartire da solo e di lasciare la figlia nel luogo che aveva visto nascere e morire il suo grande amore. Madre Natura, dispiaciuta per la morte di Tergesteo fece nascere il sommacco, che da allora colora di rosso l’autunno carsico. È stato il sangue del giovane ad impietosire Madre Natura.

Mare ordinò a Onde di ricoprire il corpo di Tergesteo di conchiglie, stelle marine e alghe, dando vita, nel tempo, ad una collina sulla quale gli uomini costruirono un Castelliere, che, ingrandendosi, divenne città chiamata Tergeste in ricordo di Tergesteo, oggi Trieste. Ancora oggi Bora si trova qui perché Terra le concesse di regnare sul luogo della sua disperazione e Cielo di rivivere ogni anno alcuni giorni del suo amore: sono proprio questi i giorni in cui la bora soffia impetuosa. Oggi, si parla di bora “chiara” quando Bora è fra le braccia del suo amore; “scura” quando attende di incontrarlo.

 

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